Inutile negarlo: ho e abbiamo provato una grande – enorme – delusione per la decisione della Corte d’assise d’appello di Taranto (sez. distaccata di Lecce) che ha annullato la sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto. Un processo in cui rappresentiamo alcune parti civili, che abbiamo seguito per anni con fatica, impegno, passione, e che termina con una specie di macchina del tempo: centinaia di parenti delle vittime dell’inquinamento di Taranto e malati di tumore saranno infatti costretti ad iniziare un nuovo iter giudiziario a Potenza. A tutto vantaggio indovinate di chi? Ma sì, certo: degli imputati, dell’acciaieria e della famiglia Riva. Il tutto con una sola morale apparente: in Italia sembra esserci licenza di uccidere in nome del profitto.
Ora, è chiaro, le conseguenze sono immense: le sentenze azzerate e la maxi inchiesta sul disastro ambientale generato dalla fabbrica che rischia di finire nel calderone dalla prescrizione rappresentano un precedente di inaudita gravità, un fatto a suo modo storico – ma in un senso che è all’opposto di quello che tutti avrebbero desiderato. Come ha detto qualcuno, “ingiustizia è fatta“.
Togliendo di mezzo qualsiasi altra considerazione, a nostro avviso è chiaro che la decisione della Corte contrasta in modo palese con gli articoli (3 e 24) della Costituzione che garantiscono i diritti dei cittadini dinanzi alla giustizia. La sentenza è viziata inoltre da nullità perché i giudici di appello, dinanzi alle palesi incompatibilità evidenziate dalla difesa degli imputati, avrebbero potuto e dovuto esprimersi in tempi rapidi, senza trascinare per anni il procedimento fino a una sentenza che apre ora la strada alla prescrizione dei gravi reati contestati, con enorme danno per i cittadini di Taranto e le parti civili. Senza contare infine l’ultima, macroscopica, irragionevolezza: se i giudici di primo grado non potevano esprimersi sul processo perché eccessivamente legati al territorio, che dire dei giudici di appello?
Ora però, di fronte a questa situazione surreale, bisogna passare al contrattacco: lo faremo denunciando penalmente i giudici responsabili dell’assurda vicenda. Tutti i giudici che hanno seguito il processo, sia quelli di primo grado, sia quelli di appello, saranno denunciati in Procura affinché si accertino eventuali fattispecie penalmente rilevanti derivanti dalle loro incompatibilità e/o errori, mentre al Consiglio Superiore della Magistratura sarà chiesto di avviare i procedimenti disciplinari del caso.
A tutela dei cittadini di Taranto sarà invece avviata un’azione risarcitoria contro lo Stato Italiano sulla base delle norme che riconoscono indennizzi monetari in caso di irragionevole durata dei processi. La somma che lo Stato sarà chiamato a risarcire ammonta a circa 840 milioni di euro, calcolata sulla base di 500 euro a residente per i 9 anni di ritardo del processo.
Faremo il possibile, ma un fatto resta: con la sentenza Ilva la giustizia italiana ha celebrato – una volta per tutte – il suo funerale.