Polveriere nascoste: ecco perché le città italiane non sono sicure

impianti

L’esplosione avvenuta a Roma il 4 luglio scorso non ha rappresentato solo un fatto di cronaca: è invece una radiografia brutale di una situazione grave, evidente a tutti ma di cui non parla nessuno.

I fatti: a quanto pare, una cisterna in fase di rifornimento presso un distributore ha provocato una violenta deflagrazione. La zona è quella di via dei Gordiani, nel quartiere Prenestino. Il bilancio: feriti, danni ingenti a palazzi, scuole evacuate, quartiere bloccato per ore.

Tragedia sfiorata? Sì. Ma definirla tale non basta: è ora di capire perché un rischio simile è così diffuso, tollerato, normalizzato. Quell’esplosione potrebbe ripetersi domani in qualunque altra città italiana, anche se tutti fanno finta che sia giusto così.

Impianti ad alto rischio

Il discorso andrebbe infatti esteso anche ad altre strutture. Distributori di carburanti, depositi industriali, impianti chimici, cabine elettriche: in Italia sono migliaia le infrastrutture potenzialmente pericolose che convivono a distanza ravvicinata da condomìni, scuole, stazioni, centri commerciali. Non è una peculiarità romana: da Milano a Napoli, da Bologna a Palermo, la mappa del rischio urbano è fitta e spesso sottovalutata.

Molti di questi impianti sono nati decenni fa, quando le città erano diverse. La normativa ne ha consentito il mantenimento in deroga o con minimi adeguamenti. Intorno, però, le città si sono trasformate, densificandosi, con edifici e funzioni sensibili che ora sorgono accanto a strutture inadatte a un contesto urbano contemporaneo.

Il problema non è l’incidente, ma il sistema

Ogni volta che si verifica un’esplosione, la trafila è la stessa: ultim’ora, soccorsi, conferenze stampa, promesse, oblio. Ciò che manca (drammaticamente, a parte alcune eccezioni) è la consapevolezza del rischio. Perché non è solo questione di autorizzazioni o collaudi: il punto vero è che non esiste in Italia una strategia nazionale sulla convivenza tra impianti e tessuto urbano. Le domande urgenti sono palesi:

  • Quanti impianti potenzialmente pericolosi sorgono in aree densamente abitate?

  • Quanti di essi sono soggetti a controlli periodici seri?

  • Chi è responsabile se qualcosa va storto, e come cambiare le cose?

Qualcuno avrà voglia di rispondere, secondo voi? Io ho i miei dubbi..

Serve un piano nazionale di delocalizzazione e controllo

L’episodio di Roma deve rappresentare invece un punto di partenza, non l’ennesima emergenza dimenticata. Bisogna:

  1. Rimuovere progressivamente gli impianti più a rischio dai centri abitati, prevedendo piani di delocalizzazione con priorità per le aree ad alta densità demografica.

  2. Mappare pubblicamente tutte le infrastrutture a rischio e renderne accessibili dati, collaudi, titolari, piani d’emergenza.

  3. Imporre un incremento di controlli reali e regolari, con ispezioni a sorpresa e sanzioni dissuasive per le omissioni.

  4. Introdurre una responsabilità civile oggettiva, a carico di gestori e pubbliche amministrazioni che autorizzano (o non vigilano).

La sicurezza è una scelta

È inaccettabile che nel 2025 si debba ancora parlare di città costruite come polveriere. Ogni sindaco, ogni prefetto, ogni ministro che decide di tollerare un impianto pericoloso a pochi metri da una scuola sta scegliendo deliberatamente di mettere a rischio delle vite. E ogni cittadino ha il diritto di sapere cosa c’è sotto casa.

Ripetiamolo tutti insieme: la sicurezza è una scelta. Amici politici, l’Italia non ha bisogno di commemorazioni postume, ma di prevenzione concreta. 

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