Si può definire civile un Paese con 6 milioni di poveri?


Oggi mi (e vi) pongo una domanda secca, che non ammette le solite risposte sfumate cui ci hanno abituato i salotti televisivi e/o le acrobazie lessicali dei nostri politici impegnati a occupare ogni pertugio mediatico per non dire assolutamente nulla. Un interrogativo autentico, che non si può aggirare e non si può (più) rimandare.

Si può definire civile un Paese con 6 milioni di poveri? Questo – senza scadere nel giochino delle tifoserie partitiche e delle colpe contrapposte, che non serve davvero a nulla – è un interrogativo che qualcuno deve porsi, e imporre al dibattito pubblico. Mentre discorriamo amabilmente di Vannacci, regine di Britannia, influencer alla canna del gas, candidature per il nuovo Sanremo e altre notiziole nazionali, l’elefante nella stanza sta crescendo a dismisura. Eppure sembra quasi, per un tacito accordo, che più questo cresce più i media si impegnino a parlare d’altro. Incapaci di spiegare la realtà, incapaci di comprenderla, sono di conseguenza incapaci pure di raccontarla.

La realtà però è lì, sotto gli occhi di tutti. Le famiglie in povertà assoluta si attestano all’8,5% del totale delle famiglie residenti (erano l’8,3% nel 2022): si tratta di oltre 2 milioni 234 mila famiglie, per un totale di circa 5 milioni 752 mila individui in povertà assoluta.

Tanti, tantissimi. Troppi. E se abbiamo passato il tempo a ridere di chi si proponeva di sradicare la miseria – e magari era anche giusto così, vista l’esagerazione del proclama dimaiesco – nessuno però si è preoccupato di fare qualcosa per contrastarla davvero. I vari governi, compreso quello in carica, hanno pensato che la loro funzione non avesse niente a che fare con la crescita (o il contrasto) della povertà. Come se non fosse cosa loro. L’hanno lasciata lì, senza neanche accorgersene, mentre alla periferia del Paese montava un malessere sordo e muto: di quelli che in pochi vogliono raccontare.

Per questo, oggi, non si può tacere o si rischia di passare per complici. Qui si tratta di prendere posizione, di non rimanere con gli occhi chiusi mentre il mondo gira. La risposta alla domanda iniziale – la mia risposta – non può che essere netta: no, questi numeri non sono degni di un Paese civile. Gridarlo ad alta voce, denunciarlo a pieni polmoni e a testa alta, è la prima cosa da fare per rimettere a posto le cose.

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