Breve storia triste.
Basta fare una passeggiata di pochi minuti, in una qualsiasi città, per accorgersi della presenza pervasiva e ormai costante di cellulari, tablet e compagnia bella. Scorrendo volti e persone si individuano le varie fasi di una ruota che, dalla nascita alla morte, prevede ormai uno strumento tecnologico di qualche tipo come corredo necessario, come obbligatoria estensione del proprio corpo. Dalla culla alla bara, insomma, sempre con il cellulare in mano.
Se si usa questa lente per misurare le cose che ci circondano, il percorso dell’esistenza è un susseguirsi spaventoso di immagini distorte. Nell’ordine:
- Bambini di pochi mesi ancora nel passeggino ma con il tablet in mano. “Per distrarli“, certo: “e poi, che carino il maialino Peppa Pig, che danni può fare“;
- Bambini di pochi anni che monopolizzano uno smartphone durante i pasti. “Non mangiano“, dicono spesso i genitori, “senza l’amico Bing, che male c’è ad accontentarli“;
- Bambini delle elementari a cui viene regalato (!) un cellulare per smanettarci tutto il giorno: “Così possiamo fare altro, certo che va bene“, dicono mamma e papà;
- Bambini delle medie completamente assuefatti all’uso intensivo di smartphone e tablet: “Oggi son tutti così, impossibile fermarli“, si giustificano i genitori che non hanno mai tentato di farlo;
- Giovani delle superiori che scrollano forsennatamente i reel su Tik Tok ma non osano rivolgersi la parola: “Tutto normale“, sostengono i genitori, “Sai, è l’età“.
- Adulti alienati dalla mattina alla sera, fortemente dipendenti da smartphone e imprigionati in una gabbia di algoritmi tarati per imprigionarli, con capacità cognitive e sociali compromesse.
Ecco, insomma, il nostro Calvario: percorrere un sentiero tondo, che ci riporta sempre alla stessa prigione. Ed ecco il nostro Golgota: finire, a un certo punto, totalmente assuefatti a un’esistenza così penosa, arresi all’idea che vivere significhi scrollare uno schermo.
Fine della storia triste: la nostra.