Roma, si sa, è una città strana. In tutto e per tutto. Mentre le polemiche sulla Raggi infuriano, il debito raggiunge livelli record, gli scandali si susseguono al ritmo di uno al giorno, improvvisamente la priorità di tutti è diventata il nuovo stadio dell’AS Roma.
Per carità, diceva qualcuno che “il calcio è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti”, ma stavolta ci siamo superati; mesi di chiacchiericcio sono stati messi da parte in un batter d’occhio, e la questione dello stadio è diventata l’unica davvero importante: dall’allenatore della squadra giallorossa all’ultimo dei tifosi, ognuno ha detto la propria al riguardo, nella completa inconsapevolezza degli aspetti tecnici.
Non c’è niente di male, e ci manca solo, a sognare un nuovo impianto: anche perché l’Olimpico è “nato male”, è scomodo e condanna gli spettatori a immaginare azioni, contrasti e tiri che si svolgono al limite del campo visivo. Ma il modo in cui questa città dibatte la realizzazione di nuovi impianti sportivi mi lascia davvero perplesso.
Facciamo un passo indietro: nessuno lo ricorda, ma se #Famolostadio senza preoccuparci del resto, Roma rimane con altri due strutture di cui non si sa cosa fare. Il Flaminio è completamente abbandonato ormai da anni, e per una complicata storia di vincoli architettonici (ma soprattutto di soldi da investire) nessuno (o quasi) vuole sentirne parlare; per l’Olimpico abbiamo speso fiumi di denaro meno di trent’anni fa, e a breve rischia di ospitare solo gli incontri della Lazio (ogni due settimane) oltre a qualche isolata gara di rugby o atletica.
Nessuno lo ricorda, ma se #Famolostadio senza preoccuparci del resto, Roma rimane con altri due strutture di cui non si sa cosa fare. Il Flaminio è completamente abbandonato ormai da anni, e per una complicata storia di vincoli architettonici (ma soprattutto di soldi da investire) nessuno (o quasi) vuole sentirne parlare; per l’Olimpico abbiamo speso fiumi di denaro meno di trent’anni fa.
Anche solo per questo, servirebbe un ragionamento di prospettiva: proprio quello che, da noi, risulta più difficile. Non basta solo dare il “via libera” – o meno – allo stadio della Roma, ma bisogna riflettere sui destini degli altri impianti della Capitale, tutelando i beni pubblici e gli interessi dei cittadini. Pensare al futuro, senza fermarsi ai bisogni di oggi: un compito impossibile per il nostro Paese, che continua a vivere di fiammate, fuochi di paglia e fuochi fatui.
Peccato che non si parli con raziocinio, e che la discussione rimanga bloccata su un piano irrazionale e umorale. Ma d’altra parte c’entra il calcio, e il calcio è fatto di passionalità viscerali che a Roma non riusciamo proprio a limitare. “Famo lo stadio” diventa allora il manifesto di una preghiera diffusa, diventa una crociata collettiva, diventa un tam-tam insistito e inarrestabile. Chissenefrega delle regole urbanistiche, dei vincoli ambientali, dell’interesse della collettività, sembrano invocare molti tra gli interessati, che magari pensano più alla lotta scudetto che al resto. E d’altra parte, se anche Totti scende in campo direttamente – “vogliamo il nostro Colosseo moderno” – il movimento d’opinione è assicurato. Tanto che la sindaca Raggi, in crisi di consenso, si è subito affrettata a rispondergli, proponendo al capitano della squadra un incontro (?) ufficiale.
In questo marasma – cui purtroppo siamo abituati – bisogna riportare un minimo di lucidità, un barlume di consapevolezza e misura. Lo stadio può essere fatto solo se il progetto rispetterà rigidamente le regole urbanistiche e se apporterà vantaggi alla collettività, senza danni per l’ambiente. Altrimenti, con tutto il rispetto per Totti, Spalletti, l’AS Roma e i suoi tifosi, no.
Se non siamo d’accordo neanche su questo, non ha più senso chiamarci comunità.
A presto,
CR
CR