Sapete davvero cosa si intende per violenza nei confronti delle donne?


Ospito volentieri questo contributo a cura di Irene Iantosca Marullo

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Se qualcuno si stesse ancora chiedendo a cosa serva una giornata appositamente pensata per contrastare la violenza sulle donne, gli basti informarsi sui recentissimi fatti di cronaca che hanno riguardato due fenomeni tanto diffusi quanto gravi: il revenge porn nei confronti della maestra di Torino – che è stata addirittura licenziata per un reato che ha subìto e non commesso – e la violenza sessuale ai danni di una donna da parte dell’imprenditore Alberto Genovese, la quale è stata considerata una stupida e una ingenua per essere entrata nella camera da letto di un famigerato “mandrillo”.

Senza entrare nei dettagli delle vicende, è bene chiarire che alla base di questi comportamenti c’è una profonda ignoranza da parte di tutti coloro che non hanno ancora ben chiaro neanche il significato di “violenza sulle donne”, il quale è estremamente ampio e non si limita solamente alla violenza fisica, come, invece, molti testardi continuano a ritenere.

Figuriamoci se termini come “revenge porn”, “cat calling”, “body shaming” o “hate speech” siano conosciuti e compresi.

È necessario, quindi, operare un importante chiarimento e partire dal principio: cosa vuol dire “violenza nei confronti delle donne”?

L’11 maggio 2011 è stata adottata dal Consiglio d’Europa la “Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, meglio conosciuta come “Convenzione di Istanbul”, primo strumento internazionale giuridicamente vincolante il cui principale obiettivo è quello di “creare un quadro globale e integrato che consenta la protezione delle donne contro qualsiasi forma di violenza”.

L’Italia, con la Legge 27 giugno 2013 n. 77, è stata tra i primi paesi europei a ratificare questa Convenzione.

All’art. 3, la Convenzione fornisce un importantissimo chiarimento terminologico, che si spera dia una definizione definitiva e comprensibile del fenomeno, e prevede che con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intenda “una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne” che comprende “tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata”.

La normativa internazionale, dunque, ci fornisce la certezza che la violenza nei confronti delle donne non concerne solamente il fattore fisico, ma anche il fattore psicologico e quello economico.

Con tale definizione, inoltre, acquistano una legittimità anche tutti quei fenomeni che – per una questione di mala informazione e  di un conseguente analfabetismo sociale – vengono sminuiti dagli uomini – ma spesso, purtroppo, anche dalle donne – i quali continuano indisturbati a porli in essere, senza sapere che alcune costituiscono fattispecie non solo sono socialmente deprecabili, ma anche penalmente rilevanti.

Fenomeni che sono stati inseriti all’interno del nostro codice penale come il “revenge porn” (art. 612 ter c.p., rubricato “Diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”) o lo “stalking” (art. 612 bis c.p., rubricato “Atti persecutori”) sono solo la punta giuridicamente rilevante dell’iceberg di una serie di atti di violenza che vengono posti in essere nei confronti delle donne e che, ancora oggi, nonostante la comprovata rilevanza giuridica, non hanno ancora acquistato la visibilità, nè tantomeno l’importanza, che meritano.

Funga d’esempio l’ipotesi di mandarsi video sessualmente espliciti all’interno dei gruppi whatsapp: tale pratica è ancora vista semplicemente come un atto goliardico, come un banale gioco tra ragazzi e uomini, che trovano lecito, opportuno e addirittura divertente, scambiare video o foto dell’ultima conquista o di chicchessia, l’importante è che il tutto riguardi una donna e sia sessualmente esplicito.

Eppure, tale gioco goliardico è punito “con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000”, il che non dovrebbe far divertire né chi realizza e invia per primo tali video e immagini, né chi provvede a perpetrarne la diffusione con gli amici.

È chiaro che, in un contesto del genere, non si possa pretendere che venga cessato il fenomeno del “cat calling”, ossia di quei commenti a sfondo sessuale, minacciosi o desiderosi, che vengono solitamente urlati alle donne in pubblico; ancora, non possiamo aspettarci che si smetta di fare “body shaming”, ossia quei commenti derisori e negativi che mirano a far provare vergogna ad una persona per il proprio aspetto fisico; quasi impossibile, dunque, che tutti i luoghi comuni che girano intorno alle donne cessino di esistere.

“La donna deve stare a casa”; “se non fai figli che donna sei”; “sei nervosa perché hai le mestruazioni”; “ma se vai nella camera da letto di un uomo, cosa pretendi che succeda, è normale che pretenda del sesso da te”; “non andare in giro di notte che ci sono i malintenzionati”; “vabbè, ti ha dato solo uno schiaffo, poteva andare peggio”; “copri le gambe e non ti mettere la scollatura, potresti distrarre i colleghi”: tutte queste frasi – ma anche un’infinita di più – sono delle vere e proprie violenze che le donne subiscono ogni giorno e di cui ancora in pochi ne riconoscono la pericolosità e chiunque le pronunci è una persona che, potenzialmente, può commettere una violenza.

Questo perché in Italia (ma anche in altre parti del mondo) spargere il verbo dei diritti delle donne è considerato come un mero manifesto femminista, un capriccio, un’esagerazione, un fastidioso sibilo che si insinua nelle orecchie degli uomini.

Il perché è semplice: lo sforzo di mettersi nei panni delle donne e mostrare empatia nei loro confronti e per le situazioni che vivono è, a quanto pare, “demachizzante”.

Sembra, infatti, che l’uomo, qualora decidesse di prendere le parti delle donne, perdesse di mascolinità, sia meno “macho”, come se questa presa di posizione ledesse la sua virilità.

Ma quanto sono obsolete al giorno d’oggi queste dinamiche?

Mascolinità e virilità non si perdono per aver osservato quelli che sono considerati dall’Europa e dal nostro Paese come dei veri e propri diritti umani e che, come tali, devono essere tutelati; va da sé, quindi, che questi non siano solo un semplice capriccio delle donne, ma il fatto di essere equiparate agli uomini sotto il punto di vista dei diritti e dei doveri, costituisce un diritto espressamente riconosciuto dalla legge.

Ciò che, infatti, non si comprende, è che questa lotta è una lotta che tocca tutta l’umanità, non solo direttamente le donne.

Provate ad immaginare, facendo uno sforzo utopistico e iperbolico, un mondo in cui, banalmente, uomini e donne lavorassero tutti, guadagnando lo stesso stipendio.

Non esisterebbero tante di quelle situazioni di cui gli uomini stessi si lamentano: gli uomini potrebbero lavorare meno, invece di essere costretti a stare fuori casa dalla mattina alla sera per sostentare l’intera famiglia; avrebbero la possibilità di stare di più con i figli; non dovrebbero neanche più avere paura del divorzio, perché non dovrebbero strapagare l’ex moglie (luogo comune sempre particolarmente in voga tra le chiacchiere nei caffè).

Sarebbe giusto e auspicabile che tutti riconoscessero i diritti delle donne, che questi venissero insegnati sin dalla prima infanzia, affinchè la nostra attuale e futura società si fondi su basi solide, su cui le donne possano costruire la propria vita e le proprie scelte.

Le donne devono essere libere e sicure di poter scegliere la vita che più preferiscono, così come gli uomini: di poter essere casalinghe, madri, dirigenti o presidenti, di poter girare di notte con un vestito corto, di poter entrare nella camera da letto di un uomo per fare dell’innocuo sesso occasionale; in breve, di essere trattate come gli uomini, senza la paura di essere giudicate o, ancora peggio, di subire una violenza.

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