Vialli batte gli impiccati in Iran tre a zero!


Esplicitiamo subito la doverosa, necessaria premessa per non sconvolgere le anime belle – quelle persone che cercano, continuamente, una ragione per avviare polemiche perniciose e strumentali: la morte è sempre una tragedia, e quella di Gianluca Vialli – un uomo perbene, ancora giovane e pieno di vita – non fa eccezione. Ma la sproporzione con cui ormai il trapasso viene soppesato, da parte dei nostri mezzi d’informazione, ha del surreale: se nei giorni scorsi Pelé ha nettamente battuto Ratzinger in termini di copertura e risonanza, adesso il copione si è ripetuto.

Fin dai giorni precedenti TV, giornali, rotocalchi e siti vari hanno infatti progressivamente concentrato l’attenzione sul campione di calcio (Vialli, appunto), relegando il resto (tutto il resto) sullo sfondo. Dal momento in cui la notizia è arrivata, poi, è stato un fiume in piena: impossibile parlar d’altro, per giorni. Anche i politici, come sempre, si sono fiondati sul carro e hanno mitragliato dichiarazioni, post e interviste. Come se in Italia non morissero migliaia di persone ogni anno per le stesse ragioni – persone qualsiasi, figlie di un dio minore, cui nessuno dedica una copertina, un servizio o un ricordo.

Lo ripeto per i distratti: massimo dispiacere per la perdita, massima solidarietà umana alla famiglia, ma qui il discorso è diverso. E riguarda la macchina dei media, sempre più bulimica, che tutto consuma e tutto travolge, imponendo le sue logiche, perverse e incomprensibili, a qualsiasi cosa. Il calciatore di serie A, ricco e famoso, per qualcuno vale più di uno sconosciuto lontano: e allora si parli solo di Vialli, come fosse un lutto nazionale. Chissenfrega invece di due ragazzi, ventenni, impiccati in Iran: si tratta di una vicenda distante, non tutti la capiscono, buona al massimo per un articoletto o un cenno al TG. “La morte degli altri”, diceva un altro illustre defunto come Fabrizio De André, “è una morte a metà”.

Lo dico onestamente, e non provo nemmeno per un attimo a nascondere quello che penso e provo. Non mi riconosco in queste gerarchie funebri, in queste assurde graduatorie della notorietà, in questa centralità sempre maggiore per alcuni a discapito di altri anche nel momento – la morte – che dovrebbe renderci tutti uguali. Non mi riconosco in un sistema mediatico che sceglie i giusti defunti, e scarta gli altri, attivando e disattivando a piacimento il pulsante dell’empatia e della umana compassione. La pietà spetta a tutti, o a nessuno. È ancora possibile, pensarla diversamente, o è già vietato?

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