L’istruttoria aperta dall’Antitrust nei confronti di Shein – il colosso cinese di vendite di abbigliamento online a basso prezzo sospettato di aver fatto pubblicità ingannevole, appellandosi ai valori etici e di sostenibilità ambientale, per spingere le vendite dei propri prodotti e vestiti di fast fashion – sta passando un po’ in sordina, e invece rappresenta un segnale che merita di essere sottolineato.
Secondo l’organismo guidato da Roberto Rustichelli, a fronte della crescente sensibilità dei consumatori per l’impatto delle loro scelte di consumo sull’ambiente, il gruppo cinese cercherebbe infatti di veicolare un’immagine di sostenibilità produttiva e commerciale dei propri capi d’abbigliamento “attraverso asserzioni ambientali generiche, vaghe, confuse e/o fuorvianti in tema di ‘circolarità‘ e di qualità dei prodotti e del loro consumo responsabile“.
Sostenibilità, circolarità, consumo responsabile sarebbero quindi formule vuote, buone solo per attirare nuove clienti. L’accusa, in pratica, è quella di fare greenwashing: un ecologismo di facciata basato su affermazioni non veritiere in tema di sostenibilità e rispetto dell’ambiente di prodotti e attività produttive, capace di indurre (in modo ingannevole) i consumatori ad acquistare – facendo schizzare le vendite.
Non è la prima volta che Shein finisce sotto i riflettori: solo pochi mesi fa, un test aveva rivelato come diversi capi di abbigliamento proposti da Shein contenessero sostanze nocive come antimonio, piombo e cadmio. E non parliamo neanche delle notizie relative allo sfruttamento dei lavoratori impegnati nella filiera, costretti a turni massacranti e a condizioni igieniche disumane.
Ora questo nuovo fronte, relativo al tema ambientale: un argomento particolarmente delicato per la clientela principale di Shein, ovvero quella generazione Z che notoriamente riconosce grande importanza alla sostenibilità. Ma al contempo un fatto ormai abituale, comune a molti altri marchi: da tempo denunciamo infatti la prassi delle aziende di ricorrere a green claims nelle loro strategie di marketing e nelle comunicazioni commerciali al pubblico. Messaggi non sempre corretti che spesso sfociano, appunto, nel greenwashing vero e proprio.
La domanda, quindi, è lecita: quante grandi marche ingannano i consumatori, vantando meriti ambientali inesistenti? Ora serve massima severità contro queste false pubblicità ambientali: ecco perché l’istruttoria dell’Antitrust assume enorme rilevanza. Se saranno confermati illeciti e irregolarità, inutile dirlo: ci aspettiamo una sanzione esemplare contro il colosso dell’ultra fast fashion. Solamente quando si toccano sul portafogli, spesso, questi signori cominciano a ragionare..