Dopo le gravi dichiarazioni della sorella di Moussa Sangare, il 30enne che ha confessato il delitto di Sharon Verzeni, secondo la quale – nonostante tre denunce per violenze e lettere rivolte al sindaco e agli assistenti sociali – nessuno si sarebbe attivato per bloccare i maltrattamenti e aiutare il giovane a uscire dalla dipendenza da droghe, abbiamo chiesto alla Procura della Repubblica di Bergamo di estendere le indagini nei confronti degli enti locali competenti. Il racconto sulle denunce presentate (e rimaste inascoltate) è infatti davvero inquietante:
La prima nel 2023, l’ultima a maggio. Danneggiamenti, violenza domestica, maltrattamenti. Eravamo in pericolo. Nessuno si è mosso. Sia io sia il mio avvocato abbiamo scritto al sindaco, agli assistenti sociali. I segnali c’erano tutti. Volevamo aiutarlo a liberarsi dalla dipendenza. Ci abbiamo provato: hanno detto che doveva essere lui a presentarsi volontariamente. Non lo ha fatto.
Ora, è chiaro che un’accusa del genere non possa cadere nel dimenticatoio. Se infatti “nessuno si è presentato, nessuno ha controllato” – come riferito dalla donna – si apre un abisso di domande relative all’intervento (mancato) delle autorità preposte. Quanto accaduto impone di essere rigorosi: bisogna ricostruire al più presto se vi siano state negligenze e omissioni da parte delle autorità locali che abbiano in qualche modo contribuito a determinare la tragica morte di Sharon Verzeni. Va accertato se l’Asl territoriale, l’amministrazione comunale e gli altri organi competenti siano stati effettivamente informati della pericolosità di Sangare e quali misure abbiano adottato a tutela della famiglia e della collettività, e se siano stati seguiti tutti i protocolli previsti per i casi di denuncia per violenze, maltrattamenti e tossicodipendenza.
I segnali, infatti, c’erano tutti:
Nel 2023, ad aprile, mia mamma ha avuto un ictus. La situazione è degenerata: quella notte ha tentato di buttare giù la porta. Voleva i soldi. Tre mesi dopo ha aperto il gas, incendiando la cucina”. A novembre “mi ha minacciato con parole pesanti. Mi ha detto ‘Ti ammazzo’, mi ha gettato oggetti addosso. Abbiamo chiesto aiuto ai servizi sociali e al sindaco. Siamo state lasciate sole”. “Il 9 maggio scorso mi ha puntato contro un coltello, prendendomi alle spalle. Ero in cucina, ascoltavo musica con le cuffie. È scattato il codice rosso e il suo allontanamento. Abbiamo scoperto che aveva occupato la casa al piano terra”. “Non è stato fatto nulla. Forse un accertamento sanitario andava richiesto. Nessuno si è presentato, nessuno ha controllato”.
Ricostruire l’accaduto è quindi un dovere assoluto. Per evitare che quanto accaduto possa ripetersi, innanzitutto, e per onorare la memoria della vittima di un omicidio brutale. Una ragazza di 33 anni, uccisa da un uomo senza movente (“sono stato spinto da una sensazione che non so spiegare“) e – forse – dall’apatia di chi avrebbe dovuto fare qualcosa per impedirlo.