Se anche la psiche diventa spettacolo


Abbiamo visto di tutto, nel corso della nostra vita, sotto la luce dei riflettori. Da quando una società precedente – mite, allergica ai riflettori, inibita alla maniera democristiana – ha lasciato il posto alla “Società dello Spettacolo“, quasi ogni espressione dell’esistenza umana è stato scandagliato, raccontato, analizzato, registrato, condiviso e (presto) dimenticato. Dal sesso alla morte, dalla gioia alla malattia, dal lavoro alla gravidanza agli hobby alle mitomanie più sfrenate, non c’è più quasi nulla che ci sia stato risparmiato: in TV abbiamo dovuto vedere le malattie più imbarazzanti, le genitorialità più inattese, le invenzioni più bizzarre – in una corsa sfrenata agli estremi, all’eccezionale, all’anomalo e al patologico che ha fatto parte della nostra vita.

Ora, proprio quando pensavamo di averle viste tutte, ma proprio tutte, arriva la condivisione dell’intimità più assoluta: quella che i greci chiamavano ψυχή. Attacchi d’ansia in diretta Instagram, esplosioni di angoscia con lo psicologo diffuse a reti unificate (ma a proposito: il terapeuta è d’accordo? Ha accettato di diffondere un colloquio professionale, riservato, senza battere ciglio? E cosa ne pensa l’Ordine degli Psicologi di questa scelta mediatica, mentre i colleghi di tutta Italia si impegnano a mantenere il segreto sui contenuti di ogni singola seduta?), addirittura pubblici consigli (!) in materia di difficoltà psicologiche, raccontate ma solo quando (inevitabilmente) già superate. Un tempo erano donne barbute, nani e spettacoli pirotecnici ad attrarre la popolazione nei circhi: oggi il disagio psichico, esposto impietosamente, è concepito per attirare – o almeno, così credono alcuni – i clic degli utenti. E allora via con questo nuovo, psicotico circo Barnum: ma se anche l’anima diventa materia di spettacolo, se anche le emozioni più intime e personali (più preziose) diventano massificate e collettive – facendosi, in qualche modo, merce: come merce sono tutti i contenuti in gara ogni giorno sui social network per guadagnarsi  l’attenzione degli sfortunati utenti – allora, non c’è più confine che tenga. Tra business e vita reale non c’è più distanza: tutto è saldato in una gabbia permanente.

Si potrebbe fare diversamente? Certo che sì: Naomi Osaka, tennista di fama mondiale, ha speso molte energie per dimostrare che “IT’S OK NOT TO BE OK”, che non c’è niente di male a vivere fragilità e difficoltà psicologiche, e – ritirandosi da una competizione internazionale – lo ha dimostrato con i fatti, dando priorità al suo benessere interiore e alle sue emozioni. Nei luoghi che sono consoni: gli studi specialistici, lì dove il malessere e la difficoltà possono essere intercettati e contenuti.

Chiaramente, invece, questi casi sono diversi. “Lo spettacolo non vuole giungere a nient’altro che a sé stesso”, ripeteva Guy Debord, che ha passato la vita a studiare il mondo che abbiamo sotto gli occhi. Questa messa in piazza vergognosa, ahimè, ha lo stesso fine: reiterare sé stessa, opponendo all’inevitabile calo di attenzione del pubblico richiami emotivi violenti e continui, scariche adrenaliniche intense, ora anche sintomi da mandare in live e commentare in mondovisione.

Lo dicevo tempo fa: il Regno del Nulla ha i giorni contati. Ma il mondo nuovo tarda a venire: e in questo chiaroscuro – per dirla con Gramsci – nascono ancora i mostri.

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