Alla fine ce l’hanno fatta: è arrivato il via libera all’Ue all’introduzione di quote rosa nei consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa. Parlamento europeo e Stati membri hanno trovato l’intesa sulla cosiddetta direttiva “Women on Boards” che mira a far sì che almeno il 40% degli incarichi di amministratore non esecutivo o il 33% di tutti gli incarichi di amministratore siano occupati da donne (o comunque dal genere sottorappresentato).
Secondo l’accordo, che dovrà essere confermato in via definitiva dalle due istituzioni Ue, entro il 30 giugno 2026 tutte le società quotate in borsa dovranno rispettare i target fissati dalla direttiva. Nel caso in cui ci siano due candidati di generi diversi, a parità di qualifiche, la priorità dovrà essere data a quello femminile. Le società, poi, dovranno presentare alle autorità competenti, una volta all’anno, informazioni dettagliate sugli obiettivi che hanno raggiunto e, qualora fossero in difetto, dovranno riportare come intendono integrare le mancanze.
La ragione di questa mossa? Nell’ottobre 2021, in media, solo il 30,6% dei membri dei consigli di amministrazione e appena l’8,5% dei presidenti di consiglio erano donne (rispetto al 10,3% e al 3% nel 2011). In Italia, in questo senso, siamo messi bene: la presenza nei Cda supera soglia 41%. Senza contare che nel 2020 la Legge di Bilancio aveva già disposto una analoga misura riservando alle donne i due quinti (il 40 per cento) dei posti nei Cda delle societàquotate in Piazza Affari.
Ora, fin qui la cronaca. Venendo a noi, una cosa va detta subito: l’obiettivo di ridurre la disuguaglianza di genere, e di favorire la partecipazione femminile, è (sempre) sacrosanto, e su questo non ci piove. Ma il problema è un altro: come si fa a raggiungerlo? Ed è quella delle “quote rosa” la strada migliore per farcela? Secondo me no, e spiego perché.
Mentre gli osservatori e gli intellettuali, sempre proni alle indicazioni di Bruxelles come di qualsiasi altro potere, esultano e annunciano la palingenesi imminente, la “rivoluzione rosa”, la definitiva eliminazione degli ostacoli lungo il cammino delle donne e la rottura di quel “soffitto di cristallo” che ancora oggi ne impedisce l’avanzamento di carriera, c’è infatti chi – rompiscatole per definizione – ritiene che le “quote rosa” in azienda rappresentino una sconfitta per tutti: donne e uomini, indistintamente. Io sono tra questi: accettare l’idea delle “quote” rappresenta un passo indietro, perché “obbligare” le società ad avere almeno un tot % di donne all’interno degli organi direttivi significa aver già perso la battaglia avviata per arrivare a una inclusone spontanea e naturale, basata sui meriti effettivi. In questo modo, ancora una volta, le donne sono trattate come una specie da proteggere, dimenticando tutto il percorso di conquiste che le stesse hanno sviluppato in piena autonomia (e contro la società maschile e patriarcale). Non è attraverso la garanzia dell’alternanza dei sessi all’interno delle imprese, come delle liste elettorali, che si garantisce il rispetto della visione femminile all’interno della società e dell’economia: la presenza di entrambi i generi dovrebbe essere, invece, la naturale conseguenza di una scelta meritocratica, e solo di quella.
“Se si riuscisse a imporre la meritocrazia non ci sarebbe bisogno di alcuna quota perché la struttura e la distribuzione dei talenti nella popolazione femminile è uguale a quella delle popolazione maschile. Ed è pertanto naturale che il 51esimo uomo sia meno produttivo della 49esima donna. Insomma, con la meritocrazia arriveremmo ad avere un 50 e 50”.
Fiorella Kostoris, economista, professoressa al Collegio d’Europa di Bruges e membro dell’ANVUR
Insomma: basterebbe confidare (davvero) nella meritocrazia, e il problema sarebbe risolto. Imporre le “quote” significa quindi buttare a mare proprio i criteri di scelta meritocratici, che pure formano il principio-cardine intorno a cui sono costruite le nostre società. E dimenticare che le donne, senza bisogno di obblighi di legge o favoritismi di sorta, il proprio posto nella società hanno imparato a prenderselo da sé – a prescindere dalle gentili concessioni di questa o quella autorità, questo o quel potere:
“In molti campi le donne hanno costretto ai margini gli uomini diventando maggioranza o facendosi apprezzare più degli uomini. Nella scuola di ogni ordine e grado, per esempio, l’Istat ci dice che le insegnanti di ruolo sono l’82%; nella medicina di base e in diverse specialità cliniche le donne sono numerosissime e stimate per la loro disponibilità e competenza più degli uomini. Nel campo del giornalismo la situazione è sotto gli occhi di tutti: le inviate da ogni parte del mondo affollano i telegiornali. Gli esempi naturalmente potrebbero continuare, ma mi fermo qui: c’è una strana passione di alcuni uomini nel battersi per rivendicare i diritti delle donne […] imponendo le quote, la parità. Diffidiamo: sembrano voler dire gestiamo noi le donne, prima che i posti se li prendano da sé e ci superino. No, fermiamoli noi. Fermiamo tutti, uomini e donne che vogliono imporre le quote, che sono solo il miglior modo per continuare a pensare che le donne siano inferiori”.
Ida Magli, Il mercato delle donne, “Il Giornale” il 7 marzo 2014
Insomma: non solo le quote certificano una resa inaccettabile nel percorso di edificazione di una società meritocratica e totalmente libera; seguendo questo modello, si rischia – per usare le parole di Lea Melandri – di “tornare indietro di quarant’anni. Ovvero alle prime lotte per l’emancipazione femminile, ancora del 1800, della prima metà del Novecento: quando cioè la donna era vista come una minoranza sociale per la quale si doveva colmare uno svantaggio, garantendole tutela e valorizzazione. Ecco, negli anni Settanta mettemmo in discussione questo approccio. Mostrammo come la discriminazione inizi ben prima, inizi nel momento stesso in cui una donna continua a essere ricondotta al suo ruolo di madre procreatrice oppure di corpo che seduce. Se non mettiamo in discussione la visione maschile del mondo, i modelli imposti anche nella politica e nelle istituzioni dall’uomo, tutti gli sforzi che faremo per ottenere più diritti saranno anche utili magari, a breve raggio, ma non daranno un taglio alle discriminazioni”.
Eh già: anni e anni di battaglie, di denuncia delle condizioni sociali che impediscono la naturale ascesa femminile nella società, di analisi del monopolio patriarcale del potere, concluse nella forma di una norma che quell’ascesa femminile non la accompagna, ma la impone in punta di legge. Senza neppure domandarsi a che scopo: sicuri sicuri – oggi che 4 donne guidano la UE, la BCE, il FMI ed il Parlamento Europeo, senza grandi discontinuità rispetto alle gestioni precedenti – che basti infilare le donne nei gangli del potere, e il gioco sia fatto? Io non credo proprio: il contributo femminile che serve davvero è più grande, più ampio, più ricco, come si addice alla natura femminile; e coincide – deve coincidere – con una radicale ristrutturazione dei meccanismi e delle politiche fin qui in vigore, all’insegna di una discontinuità che, davvero, renda omaggio alla specificità e all’unicità irriducibile di ogni donna.
E poi, per concludere il cerchio del ragionamento, un’ultima domanda si impone alla coscienza onesta: chi può garantire che, domani, non saranno altre le “categorie sottorappresentate” bisognevoli di centralità economica e sociale? Chi può escludere che in futuro siano minoranze etniche, sessuali, economiche e religiose o altri gruppi sociali stigmatizzati a richiedere lo stesso trattamento, ovvero un accesso “garantito” a questo o quel centro di potere, e chi potrebbe – in caso – rispondere “no”? E quando la finiremo, di questo passo, di garantire a Tizio e a Caio una parità rispetto a Sempronio, in una gincana infinita di compensazioni, livellamenti e nuove rivendicazioni?
A me pare chiaro: questa è una strada senza uscita, e percorrerla non farà avanzare di un passo nella direzione di una società più giusta, libera e inclusiva. Possiamo andare avanti in questa direzione, ma più ci addentreremo nella caverna più si allontanerà l’uscita, e a un certo punto – quando saremo stracolmi di diritti e controdiritti, e la meritocrazia sarà un lontano ricordo – dovremo faticare, non poco, per trovare la strada giusta.
Lasciamo allora che a decidere del successo di una persona sia il suo talento, e solo quello, diamo fiducia all’uomo e alla donna, a tutti, per le loro capacità: allora sì che avremo realizzato un mondo equo e bilanciato, fondato su criteri che permettono a tutti di partecipare alla competizione e solo ai migliori – a prescindere da chi siano – di emergere. Non ho dubbi: sarebbe, davvero, un bel posto in cui vivere.