I POVERI VOGLIONO VENIRE IN EUROPA… MA QUESTO NON HA NULLA A CHE FARE CON I NAUFRAGI


Da quando il nuovo governo ha deciso finalmente di seguire una strada per bloccare la vergognosa speculazione dei trafficanti di uomini che lavorano in Africa con l’appoggio e, probabilmente, dando un forte sostegno economico alle cosiddette ONG, vedo sui giornali e sento in televisione un linguaggio che è assolutamente fuori luogo e che non c’entra nulla col problema attuale.

Solo Alberto Alesina ha correttamente scritto sul Corriere: “l’Europa meta desiderata dei poveri di tutto il mondo”.

E speriamo che gente poco adusa al dizionario italiano inizi a sfogliarne uno, come quel De Falco che si auto-esaltò nella famosa telefonata al comandante Schettino, e che intervistato pure lui – e di naufragi dovrebbe intendersene – ha dichiarato “i naufraghi vanno salvati sulle coste libiche”.

Già il termine “naufrago” appare di per se sbagliato. Un ottimo servizio di Report ha di recente dimostrato che questi presunti naufraghi tutti abbienti pagano fior di bigliettoni ai trafficanti per poter salire su gommoni che sanno benissimo essere mezzi sgonfi e a volte bucati, con lo scopo semplice e ovvio di essere “salvati” in mare dalle compiacenti navi delle Ong, chissà da chi foraggiate, e quindi entrare in un paese straniero senza seguire le normali procedure di legge.

Non ho il minimo dubbio sul fatto che tantissimi di costoro abbiano tutto il diritto di andare via dal loro paese, perché dilaniato da guerre fratricide e tribali e perché rischiano seriamente la vita. Il problema è l’atteggiamento e il linguaggio dell’Europa e dei media del nostro paese. Una persona che paga per farsi mettere su un gommone bucato e che poi ovviamente imbarca acqua e rischia di affondare, non può essere assolutamente definito “naufrago”, e non si può parlare di obbligo di umanità, solidarietà o di intervento in mare per salvarlo, perché tali concetti non valgono assolutamente se una persona che si è volontariamente – e per uno scopo preciso e illegale – posta in quella situazione di pericolo.

È come se un aspirante suicida dall’alto di un tetto comincia a ricattare tutti minacciando di buttarsi giù finché non ottiene ciò che vuole: in quel caso nessuno si permetterebbe di dire che era giusto intervenire e concedere a quella persona quel che chiedeva, solo per il dovere di solidarietà e il dovere di salvarlo dal suicidio. Nel caso dei migranti, invece, il concetto di “dovere” viene fatto valere quasi in automatico.

Se non siamo in grado di creare degli hotspot in Africa per aiutare queste persone a partire, è assolutamente inconcepibile pensare di doverli imbarcare su navi che vengono foraggiate chissà da chi, per poi consegnare questi poveracci a un paese europeo facendogli realizzare il loro sogno e creando sensi di colpa se un paese – come suo diritto – rifiuta di sostenere la speculazione sulla pelle umana e di far crescere le organizzazione dei criminali che svolgono questo indegno traffico di esseri umani.

Senza dire che ora dopo la nuova fermezza fanno morire di più anche i bambini per sollevare le “magliette rosse” in empiti di solidarietà ai trafficanti e ricattare gli Stati e indurli a cedere. E allora basta: non parliamo più di naufraghi, non parliamo più di obbligo di assistere chi si mette volontariamente a rischio di annegare in mare.

Facciamoci venire i sensi di colpa per le differenze economiche tra nord e sud del mondo, ma anche per il diritto del nostro Stato di non rendersi complice di gravissimi crimini a favore dei quali ora militano personaggi con la maglietta rossa cui una volta ero molto affezionato ma che adesso veramente mi fanno pena.

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