da l’Unità di giovedì 15 ottobre 2015, di Adriana Comaschi
“La tasse comunali prima si tagliano meglio è”, dettava poco tempo fa in tv un nome di spicco del Movimento 5 stelle come quello del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio. Un’ assicurazione strategica per accreditarsi come buoni amministratori, con Roma senza sindaco e decine di comuni al voto la prossima primavera. Ma basta andare a Civitavecchia, “feudo” grillino ormai da giugno 2014, per misurare la distanza tra parole e fatti. Mentre a Quarto, in provincia di Napoli, la sindaca grillina Rosa Capuozzo ha pensato bene di affidare la stampa dei manifesti istituzionali alla tipografia di cui è titolare niente poco di meno che suo marito, ovvero la Baiano. Una vicenda per cui le opposizioni pensano già a un esposto in Procura. Quanto a Civitavecchia, qui non solo il primo cittadino Antonio Cozzolino ha alzato la tassazione locale fino ai tetti massimi di legge, ma lo ha fatto in una seduta del Consiglio comunale convocata in notturna, iniziata dunque dopo le 21 e conclusa il mattino dopo con l’approvazione del bilancio consuntivo in piena notte. Con buona pace di quelli che dovrebbero essere due imperativi del Movimento nel rapporto con i cittadini, ovvero trasparenza e partecipazione. L’ opposizione ha denunciato il ‘blitz’ dello scorso luglio come un tentativo di scoraggiare le prevedibili proteste. Basta guardare le aliquote previste per il 2015 per capire che il malcontento non è frutto di pregiudizi: l’ addizionale Irpef passa dallo 0,3 allo 0,8%, l’ aliquota massima; l’ Imu vola dal 9 al 10,6 per mille, pure il tetto massimo; per la Tari si chiede il 10% in più, la Tasi cresce dal 2 al 2,5 per mille. Tasse su, dunque, rispetto a quelle deliberate dall’ultima amministrazione eletta (guidata dal sindaco Pd Pietro Tidei, sciolta per l’ addio di Sel nel 2013, a cui è seguita una gestione commissariale di alcuni mesi): con una manovra “lacrime e sangue” che ha suscitato le proteste del Codacons, secondo cui prima la giunta grillina avrebbe dovuto razionalizzare le spese. L’ impennata dei tributi locali poi si accompagna paradossalmente a una riduzione consistente dei servizi: il trasporto scolastico dei disabili, per dire, è ormai un lontano ricordo. Ed è solo uno dei tasti dolenti. Nello stesso bilancio è prevista la dismissione di una fetta importante dei beni immobiliari pubblici, “come la caserma Stegher, che ospita moltissime associazioni”, racconta ad
esempio Claudia Feuli, segretaria dei Giovani democratici. E più in generale, “non c’ è più l’ esenzione dalla refezione scolastica per chi ha l’ Isee a zero, le case popolari non vengono assegnate, lo scorso inverno le
scuole hanno dovuto chiudere diversi giorni perché senza riscaldamento. Incredibile poi che non ci siano investimenti per la manutenzione della rete idrica, dopo che quest’ estate buona parte della città è rimasta settimane
senz’acqua”. Cozzolino chiama in causa il “buco” trovato nella casse comunali, omettendo di precisare che risale alla giunta di centro destra di Giovanni Moscherini. La kermesse di Imola sarà il banco di prova per capire se il Movimento è pronto ad aprire una nuova fase, meno di lotta e più di governo. Bisognerebbe cominciare a prendere sul serio il Movimento 5 stelle. Una certa consolidata pigrizia induce la maggior parte dei media a parlarne in termini di folklore politico o, nella migliore delle ipotesi, a considerarlo semplicemente il sintomo di un malessere diffuso e di una fondata diffidenza verso l’ establishment politico tradizionale. Il che naturalmente è vero: ma non basta. La fase eroica e ingenua – quella del Parlamento da aprire come una scatoletta, delle scie chimiche e dei microchip sottopelle – appartiene al passato, sebbene non sia tramontata del tutto: oggi sembra più adeguato descrivere il M5S come un adolescente che s’ affaccia all’età adulta. Del resto, i movimenti politici si definiscono
e prendono forma nel loro divenire concreto, in virtù delle scelte compiute ma anche, e spesso soprattutto, grazie al contesto in cui si trovano ad agire. L’ Italia che ha votato nel 2013 era esattamente divisa in tre (Bersani, Berlusconi, Grillo); l’ Italia di domani – o di dopodomani – è destinata a tornare bipolarista e forse a diventare bipartitica, perché
questa è la dinamica della democrazia e perché la nuova legge elettorale, fortunatamente, agevola e premia la dinamica dell’ alternanza. Può darsi che il centrodestra riesca infine a liberarsi di Silvio Berlusconi, a trovare un nuovo leader capace di riunificarne le membra sparse, a ricostituire una coalizione competitiva e potenzialmente vincente. Ma può anche darsi di no: e se così fosse, il compito di costruire un’alternativa, indipendentemente e persino al di là delle intenzioni di Beppe Grillo, ricade sul M5S. Al quale la sorte e le circostanze hanno riservato
un destino particolare: lo sfarinamento del centrodestra libera un consistente serbatoio di voti (e dunque non è un caso se le posizioni sull’immigrazione strizzano l’ occhio a quell’elettorato), ma la trasversalità strutturale del Movimento consente anche di pescare voti a sinistra, fra i delusi e gli irriducibili che considerano Renzi una specie di usurpatore e non hanno tempo da perdere con l’ ennesima, futura reincarnazione della “sinistra radicale”. Ma per conquistare un consenso sufficiente a proporsi come forza di governo non bastano la protesta, il “vaffa”, la battaglia
sugli scontrini o l’ esibizione ostentata dell’ onestà: occorre anche un po’ di buona politica. E’ precisamente a questo crocevia che si trova oggi il partito – anche se il termine non piace agli interessati – di Grillo e Casaleggio. “Italia5stelle”, la manifestazione nazionale che si terrà sabato e domenica a Imola – a metà strada fra una festa e un congresso, un happening e una Leopolda – ha come tema il governo: “La stanca litania del ‘Non avete fatto niente’ dei partiti – si legge sul blog di Grillo – sarà smentita dalle azioni svolte con successo dal M5S attraverso le ‘Buone
notizie’, un elenco di tutte le cose fatte e portate a termine dagli eletti”. Il punto qui non è sapere quali buone cose hanno fatto gli attivisti e gli eletti del Movimento: il punto è che l’ accento, per la prima volta in modo così evidente, cade sulle cose da fare anziché sulle denunce, le irrisioni e le proteste. Non è difficile intravedere lo scontro fra due linee, e il lento prevalere della seconda. La prima, incarnata da Gianroberto Casaleggio, ha un carattere fortemente identitario ma, politicamente, sterile: è la linea dell’ intransigenza, del #vinciamonoi, delle espulsioni a raffica, del fondamentalismo programmatico, della purezza rivoluzionaria. La seconda, che oggi ha in Luigi Di Maio la sua espressione più compiuta, prova a fare un passo in più, e offre di sé un’ immagine più pragmatica, più concentrata sull’azione parlamentare (con i suoi inevitabili compromessi), più attenta all’ascolto di quei pezzi di società che allo scontento uniscono anche la legittima difesa di interessi concreti. Non è un caso se Di Maio – il candidato in pectore alla presidenza del Consiglio, sebbene le sensibilità e le procedure del M5S impediscano di dirlo chiaro – è cresciuto a pane e politica: figlio di un dirigente del Msi e poi di An, consigliere di facoltà quando studiava giurisprudenza, candidato (senza successo) al consiglio comunale di Pomigliano d’ Arco e, oggi, vicepresidente della Camera. La biografia di Di Maio è la testimonianza più sicura del fatto che vuol fare sul serio – il che naturalmente non significa che sarà capace di traghettare tutto il Movimento “dalla protesta alla proposta” (come disse una volta Almirante, e
come dopo di lui hanno ripetuto innumerevoli leader), né che saprà conquistare il consenso necessario a proporsi come credibile forza di governo. Ma la strada è questa, per la buona ragione che non ce ne sono altre percorribili se si vuol mantenere, e magari incrementare il 25% delle scorse elezioni. Grillo, sebbene in un recente sondaggio Swg sia stato superato proprio da Di Maio nel consenso fra gli elettori del M5S (24% contro il 29% del vicepresidente della Camera), resta tuttora il grande catalizzatore di voti, lo sciamano capace di infondere identità e appartenenza, la bandiera e lo spirito del Movimento. Ma è percepibile la scelta di compiere almeno un passettino indietro, lasciando sempre più spazio al gruppo che si è venuto formando in questi due anni, di cui Di Maio è il leader riconosciuto, e che da qualche mese, accantonata la fatwa contro i talk show, appare sistematicamente in tv. E anche questo è un segnale. Un altro segnale verrà da Roma, dove ancora non è chiaro con quale candidato e quale squadra il Movimento sceglierà di correre, e soprattutto se vorrà davvero correre per vincere – con il rischio, in caso di vittoria, di doversi misurare in un’ impresa estremamente difficile e piena di rischi – o se si accontenterà di partecipare, mantenendo così intatta fino alle elezioni politiche l’ immagine di fustigatore dei costumi altrui senza l’ ingombro del governo di una grande città (nelle piccole, come Livorno, i risultati non sembrano brillanti). Il cammino è ancora lungo, ma del resto anche le elezioni sono lontane. Aspettiamo intanto di vedere che cosa succederà a Imola, quanto la nuova classe dirigente del M5s saprà mostrarsi all’altezza dello slogan della manifestazione – “Il M5s al governo” – e quanto invece le antiche pulsioni qualunquistiche e a tratti violente potranno zavorrare la nuova fase. Che, in ogni caso, è cominciata: e faremmo bene a prenderne tutti nota.