Festa grande tra gli haters: arriva la “licenza di offendere”


Alla fine è arrivata la pronuncia – o almeno, una delle pronunce – sul caso Fedez-Codacons da parte del Tribunale di Roma, che ha rigettato la richiesta di risarcimento avanzata in sede civile nei confronti del cantante. Una sentenza avversa, come capita – ed è naturale che sia – nel corso del percorso professionale e associativo, e su cui non voglio dilungarmi più di tanto: ognuno può farsene l’idea che ritiene, e anzi abbiamo già messo a disposizione degli utenti uno spazio virtuale per raccogliere tutte le opinioni possibili – anche quelle contrarie alle nostre. Abbiamo già annunciato che faremo appello, quello che verrà lo vedremo e non conviene in nessun modo provare a immaginarlo.

Quello che invece mi interessa discutere è il principio che questa sentenza introduce, in primis dal punto di vista giuridico: e in particolare il rischio di introdurre una qualche “licenza di offendere” a chiunque sia incline alla provocazione.

Si legge infatti nella sentenza del giudice della XVIII sezione civile, Cecilia Pratesi:

L’apprezzamento della effettiva offensività di determinate espressioni non può essere effettuato in via astratta, ma deve tener conto del contesto entro il quale avviene la comunicazione. Una espressione volgare, resa da un soggetto quale Fedez, aduso alle provocazioni implica indubbiamente un “effetto d’urto” più limitato di quelle che comporterebbe se proveniente da personaggio solitamente composto ed autorevole; ed all’interno di un canale social gestito da un personaggio pubblico di tale natura, ove abitualmente è in uso un linguaggio informale, si adoperano immagini ad effetto, le espressioni utilizzate – proprio perché volutamente eccessive – perdono in certo senso di potenza, e conseguentemente la loro portata offensiva affievolisce, perché un insulto, pronunciato in un contesto di tale natura, non è effettivamente idoneo a provocare un serio turbamento, e men che meno a minare la reputazione di chicchessia […]
una espressione indubbiamente volgare come “potete andare a fare in culo”, può assumere connotati oltraggiosi se pronunciata all’interno di un contesto istituzionale, o nel corso di dibattiti (anche on line) di contenuto culturale, filosofico o politico, o ancora rivolta ad autorità costituite o a religiosi, ma può essere percepita come meramente scherzosa se pronunciata tra amici, così come è divenuta nel tempo socialmente tollerata (ad esempio) nel corso di una partita di calcio, o durante una discussione dai toni accesi, e dunque anche all’interno di una piattaforma social dai toni strettamente popolari, che non si propone certo come luogo di garbati confronti tra opinioni o dibattiti di alto profilo”.

Ora: è chiaro che, in un mondo come quello che viviamo – popolato di violenze e bullismo, online e non, specie tra i giovani – stabilire un principio del genere comporta inevitabilmente delle conseguenze. Praticamente, estendendo il concetto di base in chiave puramente speculativa, se uno è un criminale abituale e commette un reato il fatto diventa meno grave rispetto a quanto accadrebbe con una persona perbene, che ruba una sola volta – magari non avendo scelta.

Le domande, ovviamente, fioccano: la legge non è più uguale per tutti? Ragionando così, non si attribuisce a chi è uso alla “provocazione” una (nuova) esimente e causa di non punibilità, e tutto contro il principio di legalità? Non si rischia in questo modo di creare soggetti giuridicamente “diversi” rispetto agli stessi comportamenti? E poi: tali differenziazioni “di caso in caso” sono coerenti con la funzione di tutori della legalità dei magistrati, che pronunciano queste sentenze in nome del popolo italiano?

Domande, domande, domande. Io le pongo, ma ognuno risponde per suo conto. Una sola cosa è certa: sentenze come questa rendono ancora più evidente la necessità di intervenire con urgenza, così come richiesto anche da una recente interpellanza parlamentare, per assicurare l’uniformità di giudizio (anche) in tema di diffamazione. L’impressione è che al mutare di latitudine, di circostanza e di sensibilità del giudice ne escano decisioni diverse e anzi ormai di fatto contradditorie. L’obiettivo dev’essere invece quello di evitare che ad alcuni sia consentito fare ciò che ad altri non è permesso: un elemento-cardine dei nostri sistemi giuridici. Per questo abbiamo deciso di raccogliere le testimonianze dei cittadini che si ritrovano coinvolti in casi simili, fatti di sentenze e pronunce contraddittorie: l’uniformità di giudizio è essenziale. Ne va – niente di più, niente di meno – della certezza del diritto.

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