La denuncia contro il premier israeliano Netanyahu non l’abbiamo depositata oggi. È stata depositata nei giorni scorsi. Ma alla luce degli ultimi sviluppi, sembrerebbe quasi che sapessimo cosa stava per succedere. Perché se c’è una cosa che Netanyahu non sa fare è fermarsi.
Dal 7 ottobre a oggi, Israele ha aperto sette conflitti armati. Sì, sette. Gaza, Libano, Cisgiordania, Siria, Yemen, Iraq e ora Iran. Qualcuno ha parlato di “difesa”, qualcun altro di “azione mirata” nei confronti di un’asse della “maledizione” (parole e musica proprio di Bibi). Noi preferiamo chiamarla con il suo nome: guerra seriale, guerra permanente.
“Guerra preventiva”: il déjà-vu
Ora siamo di fronte a qualcosa che dovrebbe preoccuparci tutti. Israele ha colpito l’Iran senza essere stato attaccato. Punto.
Possiamo pensarla come vogliamo sul regime iraniano – e ce ne sarebbe da dire, intendiamoci – ma qui si tratta di un dato oggettivo: l’Iran non ha messo piede sul suolo israeliano, non ha attaccato Tel Aviv, non ha violato nulla. Ha subito un attacco improvviso sul suo territorio e sulla sua capitale: un fatto gravissimo in ogni angolo del globo, non solo in quelli di cultura persiana.
Allora ci spiegano che si trattava di una “guerra preventiva”. La stessa espressione che ci è toccato digerire nel 2003 quando Bush cercava armi chimiche nei sogni di Saddam Hussein. Lo sappiamo tutti com’è andata a finire. Vi ricordate? Di armi chimiche, neanche l’ombra. Oggi, di nuovo, a giustificare le bombe sono intenti “difensivi” e “preventivi”. Ma passati vent’anni, stranamente, non si indigna più quasi nessuno.
Doppiopesismo occidentale
Se a fare un’operazione del genere fosse stato un altro Paese – diciamo la Russia – avremmo già pronti sanzioni, dossier, condanne e risoluzioni. Giustamente, intendiamoci. Ma quando a condurre il gioco è Israele, tutto cambia. Il vocabolario si addolcisce. I toni si abbassano. I ministri europei si trasformano in statue di sale. È il solito doppiopesismo occidentale. Insomma: un’invasione è un’invasione solo se non l’ha firmata un alleato. Capito, allora, perché mezzo mondo ci guarda con sospetto?
Sette guerre, una certezza
Sette fronti militari aperti in meno di ventiquattro mesi. Non è più una strategia: è una coazione a colpire. E il rischio – ormai più che concreto – è che l’intero Medio Oriente finisca nel tritacarne di un delirio chiamato “sicurezza nazionale”. Chi fermerà Netanyahu? La politica internazionale resta a guardare. Le istituzioni europee balbettano. I grandi media parlano di “tensione”. Ma qui non si tratta di tensione: qui si bombarda.
La denuncia presentata nei giorni scorsi alla Corte penale internazionale è un segnale. La richiesta di una indagine per il possibile reato di strage, in relazione alle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario, crimini contro l’umanità e crimini di guerra è un messaggio e una testimonianza.
Forse non basterà. Ma almeno abbiamo evitato il silenzio. Quello, sì, è una vera vergogna.